[Lego ergo sum] Se questo è un uomo
Mettiamo subito le mani avanti: questa non è in alcun modo una recensione del celebre capolavoro di
Primo Levi. Non potrei mai azzardarmi, perché palesemente non ho gli strumenti adatti per arrangiarmi
critico letterario, con un’opera del genere poi…non scherziamo.
Questo post racconta solo sensazioni ed emozioni scaturite dalla tarda, tardissima lettura di un resoconto
terribile di un’esperienza infernale.
Si, io “Se questo è un uomo” l’ho letto solo adesso, a trent’anni, e ora che l’ho finito avrei voluto leggerlo a
tredici. Tutti dovrebbero. Se potessi lo regalerei a ciascun cittadino italiano, consigliandogli fortemente la
lettura. Quasi tutte le persone che conosco l’hanno letto durante le scuole, ma temo che essendo obbligati
a farci interrogazioni, compiti e relazioni il valore dell’opera ne venga sminuito (cosa che non accade con i
Malavoglia, che non ho sopportato a prescindere, ma questa è un’altra storia. ndr).
Perché dico che tutti dovrebbero leggerlo? Perché è il manifesto dell’abisso dell’animo umano, dell’ombra
nera che può ottenebrare la ragione senza che una ragione, invero, ve ne sia.
Una lotta che vergognosamente oserei definire epica, tra la determinata, barbara logica dello sterminio
orchestrato ed organizzato, e la brutalità primordiale dell’istinto di sopravvivenza (o di quello
dell’autodistruzione per rassegnazione) che prende il sopravvento.
Leggere Se questo è un uomo mi ha fatto sentire come pestato in un angolo dai bulli di quartiere: spiazzato
di fronte alla cattiveria gratuita nei confronti dei propri simili, i colpi bruciano forti, li incassi, e speri e pensi
al momento in cui finirà, nel bene e nel male. E senti intorno a te indifferenza, magari un passante cambia
strada, o chi è stato picchiato come te dagli stessi bulli si tiene il suo occhio nero senza farne parola, perché
ne ha paura. Non mi viene in mente una metafora più calzante, sinceramente.
Come il Maus di Spiegelman, altra opera a mio avviso fondamentale sull’abisso dei campi di sterminio,
anche Se questo è un uomo mi ha portato a più riprese a chiudere il libro pur avendo voglia di continuarne
la lettura: ero saturo di immagini disdicevoli e terribili anche solo da immaginare, e non ce la facevo a
proseguire perché la mente mi riportava quelle immagini di fronte agli occhi, sistematicamente.
Mi ha colpito moltissimo l’insistere di Levi sulla forte distanza tra carcerati e carcerieri, e non soltanto per
quanto riguarda la dicotomia nazista/ebreo. I nazisti sono visti come figure lontane, intoccabili, aliene,
tanto che stupisce come l’autore non riesca a provare neanche un sentimento di odio nei loro confronti,
che parrebbe il più consequenziale; più evidente e quindi doloroso è invece il solco tra prigionieri e
prigionieri caposquadra, perché si va così a sottolineare in misura ancor maggiore la bestialità dell’uomo,
capace di brutalizzare nello stesso modo in cui egli stesso è brutalizzato.
Così come si insiste sui furti come mezzo di sostentamento e sopravvivenza, furti tra persone che non
hanno più nulla, neanche il proprio corpo, portato al sistematico deperimento in maniera forzosa. L’uomo è
in mezzo ai simili ma è da solo; qui il “mal comune mezzo gaudio” decede in virtù di uno spintissimo e
crudele “homo homini lupus”.
Paradossalmente, alla sparizione dei carcerieri e della minaccia principale si palesa uno scenario che mi
ricorda tanto il genere post-apocalittico, volendo fare un paragone azzardato. Si osserva il ritorno ad una
condizione leggermente migliore, quel bisogno di socialità e di comunità che, assicurata la sopravvivenza, o
proprio in funzione di questa, è insita nell’essere umano ritornato ad esser tale dallo status di sub-uomo. Il
gruppo assomiglia a quello di tante opere di fantascienza post-apocalittica, lo scenario peggiore perché
realmente vissuto sulla pelle di molti sfortunati. Ed è da notare che proprio come in quelle opere, la società riparte da piccoli gruppi, e dall’indifferenza verso quegli altri: non è automatico il formarsi di una enorme
comunità, dopo la sfiducia portata dalla brutalità.
Io non so se a tutti abbia fatto questo effetto così forte, sarà che mi ci sono particolarmente concentrato,
tanto da avermi lasciato un buco profondo nell’animo, un cantuccio dove, chiuso a riflettere con me stesso,
mi chiedo perché.
Quello stesso cantuccio inaugurato con la visita al campo di Dachau nel 2011.
Non dimenticherò mai quella sensazione di malessere nel leggere degli esperimenti degenerati e folli che lì
si tenevano, né mai potrò levarmi dalla mente la rabbia e il disgusto nel sentire dei ragazzini in gita
scolastica ridere di gusto nei locali delle docce e nell’adiacente locale dei forni. Non sono bigotto, e lo
humor nero mi diverte anche tanto, ma quando un qualcosa diventa inadeguato, si passa il confine e me ne
tiro indietro, perdonatemi.
Ora conserverò sempre nella mente alcuni passaggi del racconto di Levi, indelebili quanto assurdi, e se mai
il loro ricordo cominciasse ad affievolirsi, sarà arrivato il momento di rileggerlo e rinfrescarmi la memoria
per non dimenticare mai davvero.
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